LA CACCIA e LA SUA RAGION  D’ESSERE

Egregio direttore, conoscendo l’obiettiva disponibilità del suo sito verso
opinioni e commenti (quali che siano, ma sempre nella correttezza dialettica) del
lettore che segue la sua stimata testata, ho motivo di credere che nulla osti alla
divulgazione delle molteplici tristi vicende legate alla morte accidentale di
numerosissime persone a seguito di incidenti per il pessimo uso delle armi da
caccia. Sarebbe una viltà tacere, quasi un omertoso silenzio, su una realtà che
sta creando un’indignazione generale per questa sorta di paradossale carneficina
verso la quale, la corrente realtà giudiziaria procede con una levità temporale e
sanzionatoria che spesso si perde nella notte dei tempi. L’ultima della serie è
della scorsa domenica allorché un cacciatore di 56 anni è stato vittima di un
errore fatale di un suo compagno di battuta al cinghiale in quel di Cugnoli
(Pescara), colpito all’anca e morto per dissanguamento, nonostante l’
elisoccorso prontamente intervenuto. Un evento che segue a breve distanza di
giorni quello di un bambino della tenera età di cinque anni rimasto vittima in
provincia di Nuoro di un colpo partito per sbaglio dal fucile del padre. Lascio al
giudizio comune, tragedia a parte, se sia nella norma condurre un bambino di
cinque anni ad una battuta di caccia al cinghiale, sulla qual cosa sta inquisendo
la locale magistratura. Scrivo in uno stato d’angoscia per quest’ultima
scioccante vicenda che ha portato alla spaventosa cifra di ventuno, tra morti e
feriti gravi, l’elenco delle innocenti vittime di questa barbara istituzione; e le
premesse lasciano presagire quale sarà la tragica situazione della mattanza
animale e umana a chiusura della caccia di questa stagione. E non è da meno la
mia deplorazione per l’impietosa strage di animali sacrificati al dio piacere nel
premere il grilletto contro un nemico che chiede solo il diritto naturale di vivere.
Credo di poter affermare - nella certezza di una corale condivisione di tutti
coloro che ancora nutrono sentimenti di sensibilità e del bene prezioso della vita
- che l’ancestrale pratica possa trovare la sua ragion d’essere solo nei luoghi
tribali della foresta amazzonica o della Papuasia per fini di sopravvivenza, dove
peraltro, le armi da fuoco non trovano uso da parte degli aborigeni, mentre nel
contesto cosiddetto civile è la nefasta e ludica pratica di uomini dediti al piacere
dell’uso di quelle armi. Non nascondo, altresì, la mia deplorazione verso taluni

fucilieri pantofolai della domenica di mia conoscenza che alle dieci del mattino
sparano dalla finestra ai passeri sugli alberi circostanti della locale campagna. E
tutto ciò, nel silenzio assordante e colpevole delle Istituzioni senza che si
provveda ad una severissima disciplina sull’uso delle armi o , volesse il cielo,
all’abolizione totale di un così barbaro rigurgito di primordialità umana, in un
momento culturale e politico in cui la dea libertà è alla base del consorzio civile.
È tempo che si inculchi già dai banchi di scuola elementare l’idea per cui la
libertà e la vita sono diritto di ogni specie animale, distinguendo l’esigenza
alimentare secondo natura, dall’ipocrita motivazione che si vorrebbe attribuire
alla caccia per mera ricreazione Consta che buona parte dell’avifauna abbattuta
non viene nemmeno trovata sul campo di tiro all’inerme bersaglio.
Soprassiedo, direttore, ad altri commenti nel rispetto dell’altrui opinione e nella
speranza che ogni eventuale dissenso resti nell’ambito della reciproca
temperanza, ma mi consenta almeno riportare l’austera, ma amarissima sentenza
dell’emerita “Associazione vittime della caccia” secondo cui: “Non c’è
nient’altro da aggiungere ai fatti di sangue che ormai si succedono
sistematicamente dall’inizio della stagione venatoria. Oltre ai crudi numeri,
ogni altro commento è superfluo”.
Ed è così che passa tristemente la gloria del mondo venatorio.

Gianni Sidoti